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All'inizio del V secolo, nella città di Alessandria, una donna era al centro di un mondo che non voleva più i suoi simili. Il suo nome era Ipazia – filosofo, astronomo, matematico e insegnante.
Tenne lezioni pubbliche su Platone e Plotino.
Calcolò il movimento dei corpi celesti.
Curò e conservò le opere di Euclide, Tolomeo e Diofanto.
E ha fatto tutto questo come una donna, senza vergogna, senza scuse.
Ipazia indossava il mantello del filosofo, simbolo di autorità pubblica, e parlava liberamente in spazi in cui ci si aspettava che le donne rimanessero in silenzio o invisibili. Non si sposò mai, rifiutò la conversione religiosa e offrì la conoscenza al posto della fede.

Nel 415 d.C., al culmine dei disordini politici e religiosi, fu accusata di aver influenzato il governatore contro la Chiesa. Una folla di cristiani intercettò il suo carro, la trascinò in una chiesa, la denudò e la uccise con delle tegole. Il suo corpo fu bruciato.
Non ha lasciato dietro di sé alcun libro a suo nome. Nessuna scuola che portasse avanti la sua eredità. Solo frammenti — e l'idea che una donna con la conoscenza è sempre un atto politico.
Oggi, Ipazia non è un mito. È un avvertimento. E un promemoria.
Non romanticizziamo il passato.
Ne mostriamo i denti e li indossiamo.
Scolpito nel marmo bianco intorno al 1880, “Ipazia” di Alessandro Tabacchi cattura il momento preciso in cui intelletto, femminilità e violenza si scontrano. Lei è legata a una struttura a forma di croce, braccia trattenute, busto esposto, sguardo sollevato, non come una vittima, ma come un'idea troppo pericolosa per essere lasciata impunita. Non c'è agonia nella sua espressione. Solo chiarezza. Tabacchi non raffigura la sua morte; scolpisce la sua sfida. È un raro tributo del XIX secolo a una donna che non è stata martirizzata per fede o amore, ma per pensiero.